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Il ghiacciaio

In una valle tra le Prealpi c’era una volta un piccolo ghiacciaio che se ne stava appollaiato nel bel mezzo di due montagne. La valle, formata dalle due montagne aveva una conformazione a "V" in cui il sole quasi mai riusciva a penetrare tra le vette ed illuminare il piccolo ghiacciaio. Il ghiacciaio si chiamava Albì e mostrava sempre la faccia verso nord, in modo da rimanere nascosto dal sole in qualunque momento della giornata. Albì era molto timido e temeva il sole perché sapeva che la sua pelle biancastra si sarebbe rovinata e sciolta di fronte all’immenso calore che portava il nostro astro. Eppure, Albì, in cuor suo, amava il sole. Lo vedeva in lontananza illuminare le grandi praterie sottostanti e recare quella forza necessaria agli insetti, ai mammiferi, ai fiori, di risvegliarsi la mattina e vivere tutto il giorno con forza ed energia, senza limiti. Il nostro ghiacciaio, man mano trascorreva l’amico tempo, si rattristiva sempre più a causa delle sua solitudine e non trovava soluzione al problema. Gli insetti non raggiungevano mai le sue pendici perché il freddo polare causato dalla neve e dal ghiaccio li avrebbe congelati; i mammiferi preferivano rimanere a poca distanza da esso per non scivolare e rischiare di farsi male; infine i fiori non sarebbero sopravvissuti a tanto freddo e senza la terra dove le loro radici prendevano nutrimento, per cui rimanevano ad abbellire i prati al di sotto del ghiacciaio. Albì diventava sempre più malinconico e si rattristiva ogni giorno di più. Pensava di essere brutto, indifeso e che nessuno comprendesse il suo stato d’animo e il suo buon cuore. Albì avrebbe voluto essere amico di tutti e poter far divertire ogni sorta di animale e vegetale. Invece no: tutto si riduceva a guardare da lontano la vita degli altri esseri viventi.
Pian piano però le cose migliorarono anche per quella angusta vallata e soprattutto per il ghiacciaio Albì. Gli uomini avevano fatto il loro ingresso nella valle con l’intento di stabilirsi a vivere. Essi costruirono, dapprima, alcune case piccole, grandi, grandissime. Poi, con l’aiuto di ruspe, camion, altissime gru e altri macchinari costruirono un pista da sci con tanto di seggiovia per poter risalire facilmente il versante della montagna. Albì era pazzo di gioia: finalmente qualcuno sarebbe arrivato a lambire le sue pendici e a giocare con la sua soffice neve. Quell’inverno alcuni turisti iniziarono ad utilizzare la pista da sci costruita proprio sopra Albì ma nessuno si fermava a conversare con il ghiacciaio. Gli uomini preferivano salire con la seggiovia e scendere a bordo di un paio di sci per poi risalire nuovamente… e così via. Alcuni bambini si divertivano a strappare dal suo manto la neve e a lanciarsela l’uno contro l’altro. Albì cercava di distrarre i papà, le mamme, i bambini e le bambine per poter parlare un po’ con loro. Aveva tante cose da raccontare. Sapeva storie antichissime che nessun immaginava fossero realmente successe come, ad esempio, quella dell’Aquila che voleva toccare il sole, o la storia del Bisonte bianco. Aveva visto nascere e morire e rinascere ogni sorta di fiore alpino. Sapeva gli itinerari degli stambecchi e conosceva l’acqua come nessun altro. Ma agli uomini quelle storie e tutto il resto pareva non interessare.
Passò l’inverno, la primavera, l’estate ed arrivò nuovamente l’inverno, ma l’atteggiamento degli uomini non cambiò: essi pensavano solo a divertirsi e non si fermavano a riflettere sulla bellezza della vita, sul soffio del vento, sul perché esistesse la neve o come mai il fiume nasceva dalla montagna e portava acqua potabile a tutte le case. L’essere umano era così evoluto eppure così superficiale da far arrabbiare il povero Albì. Prima, quando l’uomo non era ancora comparso, Albì si trovava solo perché gli animali e la flora non potevano vivere in un ambiente così estremamente freddo e senza cibo. Poi, dopo l’avvento dell’uomo nella sua vallata, si ritrovava in inverno circondato da tante persone ma ancora più solo perché nessuno voleva parlare con lui. Albì era talmente demoralizzato che decise di rimanere muto per sempre, senza più tentare di parlare con gli esseri umani. Semplicemente non ne valeva la pena. Trascorsero inverni, primavere, estati ed autunni e nulla cambiò. L’atteggiamento dell’umanità nei confronti del ghiacciaio e della neve era sempre il medesimo: divertirsi, sfruttare e poi tornarsene a casa.
Un giorno di un inizio d’inverno, un bimbo arrivò con la sua famiglia al paesello appena sotto Albì. Nei giorni successivi il bimbo si spinse sempre più verso la pista da sci e quindi verso Albì. La mamma lo sorvegliava a distanza e il suo dolce sguardo non lo perdeva mai di vista, sebbene lo lasciasse giocare liberamente. Albì s’accorse subito che quel bambino era un po’ speciale. Aveva i tratti somatici di tutti gli altri bimbi che sciavano e giocavano nella neve ma era molto più biancastro degli altri. Persino i capelli e l’iride degli occhi erano bianchi. Albì pensò che quel bimbo fosse la persona giusta a cui rivelarsi e provare a parlare. In cuor suo sperava di trovare un vero amico.
"Pss! Pss!" – provò a chiamare Albì.
"Chi è?" – rispose con un fil di voce il bambino.
"Sono io…" – soggiunse Albì.
"Io chi?" – domandò lesto il bambino.
"Il… il ghiacciaio. "– provò a dire Albì, sapendo che era difficile far capire al bimbo che lui era un ghiacciaio parlante, con un’anima e un cuore.
"Sìììì? E che cosa vuoi?" - chiese ingenuo il bambino.
"Vorrei parlare un po’ con te e fare amicizia" – disse il ghiacciaio.
"Ma davvero? Sei il ghiacciaio? E come ti chiami?" – esclamò stupito il bimbo.
"Io mi chiamo Albì, e tu?" –sorrise il ghiacciaio.
Il bimbo spalancò la bocca e disse felice: "Giovanni!"
Mentre la mamma lo osservava da lontano con l’occhio di una mamma preoccupata per un bimbo albino con tutte le piccole e grandi difficoltà da affrontare, Giovanni si stava divertendo un mondo a parlare e discutere con Albì. Avevano molto in comune. Tutti e due non potevano esporsi troppo al sole ma entrambi lo amavano e amavano i suoi raggi caldi. Albì non aveva amici perché nessuno rimaneva tanto tempo con lui per potersi affezionare ed instaurare una vera amicizia. Pure Giovanni aveva i suoi problemi di socializzazione: non potendo rimanere troppo all’aria aperta non riusciva a creare amicizie forti e durature, anche a scuola la maggior parte dei compagni lo evitavano un poco. Ma ora Giovanni aveva un amico, un amico speciale, un amico che nessun altro poteva avere e che nessuno gli poteva portare via.
Giovanni e Albì giocarono un paio d’ore. Poi Giovanni ritornò in hotel con la mamma. Il giorno dopo il bimbo si ripresentò ad Albì. Il ghiacciaio allora gli raccontò una bellissima storia:
"C’era una volta, un’aquila di nome Wambli. Era una bellissima aquila con il corpo bianchissimo e il becco giallo come il suo amato sole. L’aquila aveva un sogno: arrivare tanto vicino al sole da poterlo abbracciare. Questo sogno la tormentava giorno e notte riducendo la sua lucidità e velocità durante la caccia. Allora decise di parlarne con qualcuno per cercare di risolvere il problema perché lei da sola non sarebbe mai riuscita a risolverlo. Lei, la grande aquila, aveva bisogno di un aiuto! Volò veloce verso uno sperone roccioso e, prima di arrivare alla roccia rallentò. Emise un verso non minaccioso e rimase in attesa. Da un anfratto uscirono due bellissimi falchi, maschi e femmina. L’aquila iniziò a parlare chiedendo loro come potesse risolvere il problema. I falchi le dissero che era impossibile raggiungere il sole anche per le aquile, nonostante fossero gli uccelli che volavano più in alto di tutti. Poi la femmina falco le suggerì di trovarsi un marito e di avere dei pulcini: loro l’avrebbero distratta e il sogno sarebbe svanito lentamente dalla sua mente. Wambli non era convinta. Ringraziò la coppia di falchi e si diresse verso il bosco. Di lì a poco, mentre era ancora alta nel cielo, grazie alla sua acutissima vista, scorse un gruppo di corvi. Wambli si lanciò su di loro e si appollaiò sul ramo più alto di quel bellissimo faggio a cui i corvi facevano il giro tondo. L’aquila raccontò la sua triste storia anche a loro. Uno di questi prese la parola per primo e disse: "Noi corvi possediamo piccole ali nere e non riusciremmo mai volare più in alto del cielo, fino al sole. Ma tu, oh regina dei volatili, puoi tutto!"
Wambli si sentì adulata.
Riprese un altro corvo: "Vedi, noi abbiamo le penne, le piume e il becco nero proprio perché abbiamo da sempre il desiderio di raggiungere il sole ma non possiamo. Fallo tu per noi e portaci un poco dei suoi raggi un modo da schiarire le nostre pennacce."
Il terzo corvo sentenziò: "Oh mia regina, i tuoi antenati tanti anni fa volarono fino al sole e ne presero una fiammella: ecco perché voi aquile avete il becco così giallo e fiammante."
Dopo questo ultimo suggerimento, Wambli prese coraggio. Ringraziò e iniziò il suo viaggio verso il sole. L’aquila viaggio giorno e notte, instancabilmente per sette giorni e sette notti finché, l’ottavo giorno, all’alba, Wambli si presentò davanti al sole.
"Chi ti ha mandato fin qua?" – esclamò preoccupato il sole – "Non vedi che rischio di bruciare le tue bellissime penne bianchissime!"
Purtroppo Wambli, dallo slancio dato dall’ennesima sbattuta di ali, si avvicinò ancora per pochi metri.
"No!" – gridò il sole.
"Ahi!" – urlò di dolore Wambli.
I raggi del sole le avevano bruciacchiato le penne delle ali e parte del corpo. Fortunatamente l’amico Vento arrivò in fretta perché sentì l’aquila e il sole chiedere aiuto. Il Vento soffiò… soffiò e soffiò ancora più forte fino a gettare l’aquila nel cielo sottostante.
E strillò: "Non tornare più da queste parti, o scellerata. Anzi, d’ora in poi le tue penne e quelle di tutte le aquile rimarranno marroni per ricordarvi di non avvicinarsi mai più così tanto al sole mentre il collo rimarrà bianchissimo per ricordarvi che prima eravate bellissime e bianchissime…"
Il ghiacciaio Albì finì la storia. Giovanni era rimasto stupito dalla bella favola e ringraziò Albì con tutta l’anima. La settimana di vacanza di Giovanni e la sua famiglia trascorse stupenda e veloce. Mamma e papà videro Giovanni molto sereno quindi decisero di ritornare anche l’anno seguente. Giovanni ringraziò Albì e prese un pugno di neve per conservarne il ricordo dell’amico ghiacciaio. Albì disse a Giovanni che un giorno gli avrebbe raccontato anche la storia del Bisonte Bianco. Ovviamente, durante il viaggio di ritorno in città, la neve si sciolse e rimase solo un bicchiere di acqua ma il ricordo di Albì nell’animo di Giovanni rimase intatto e indelebile per tutto il resto dell’anno. Riprese la scuola. Le maestre di Giovanni notarono in lui un cambiamento: era più disponibile con loro e accettava con più serenità gli scherzi e le battute che ogni tanto i suoi compagni gli facevano. Quell’anno trascorse fugace come un treno così Giovanni e la sua famiglia, per le vacanze invernali, si recarono in quella valle a "V", nelle Prealpi. Giovanni rincontrò nuovamente il ghiacciaio Albì che lo aspettava per giocare. Giocarono insieme e si divertirono per tutta quella vacanza e anche nelle vacanze successive finché successe una cosa molto strana. Un anno fece molto caldo e Albì soffrì molto l’alta temperatura tanto che le sue pendici si ritirarono e lui si ritrovò più ristretto. Giovanni non si perse d’animo e, una volta in vacanza lo raggiunse anche se dovette camminare un po’ di più rispetto all’anno precedente. La vacanza fu ugualmente splendida. Negli anni successivi, a causa del riscaldamento della crosta terrestre dovuto per lo più all’effetto serra, Albì si restrinse sempre più fino a scomparire.
Giovanni era mortificato. Aveva perso un grande amico e non voleva sentir ragione. Quindi, una notte dove la luna illuminava quasi come a giorno la Terra, decise di andare a cercare il suo amico Albì. Prese uno zaino in spalla con all’interno poche cose indispensabili e si avviò verso la grande montagna. Arrivò nel luogo dove gli anni precedenti si estendeva il ghiacciaio Albì. Con una pila illuminò un piccolo sentiero tortuoso che risaliva la montagna più a est. Si incamminò in quella direzione e camminò quasi tutta la notte finché si imbatté in un animale strano. Giovanni cercò di illuminarlo per capire cos’era. Il suo cuore batteva fortissimo per la paura. Il mostro possedeva squame su tutto il corpo e, alla tenue luce della torcia, pareva di color verdastro. Aveva una lunga coda che teneva attorcigliata su se stessa. Giovanni illuminò il resto del corpo. L’animale possedeva due possenti ali che in quel momento teneva chiuse e quasi ripiegate su se stesse. Aveva i due arti inferiori molto muscolosi e robusti mentre quelli superiori parevano simili alle braccia degli uomini e finivano con due manine dalle unghie affilatissime e lunghissime sopra tre dita, di cui uno opponibile. Il bimbo si fece coraggio: illuminò con la sua torcia il collo e poi l’orrendo muso. Tre corte corna gli adornavano la testa e la bocca mostrava quattro denti da carnivoro. Gli occhi… gli occhi, per fortuna erano chiusi. Il mostro dormiva. Giovanni se ne accorse subito. Capì che il mostro era un drago e che era molto pericoloso. Così decise di cambiare direzione per evitare qualsiasi contatto con lui, in modo da non correre il rischio di svegliarlo. Giovanni prese un sentiero a destra e si allontanò in fretta da quel luogo. Pensava di riprendere il sentiero verso la montagna poco più avanti. Invece, il sentiero che aveva intrapreso lo portò dritto verso il bosco. Appena arrivato presso i primi alberi capì di essersi perso. Le grandi querce e i maestosi faggi anticiparono il fitto sottobosco sovrastato da castagni e lecci. In un attimo il bambino era immerso nel primo bosco. La paura lo assalì. Sentì un rumore. Si voltò immediatamente. Giovanni vide due occhi maligni che lo guardavano con insistenza. Erano lucidi e brillavano quando venivano illuminati dalla luce della torcia. Nel buio invece si intuivano appena, ma facevano ugualmente paura. Giovanni sentì un mugugno e poi un ruggito. Si girò e si mise a correre. Doveva correre velocemente. Sentì la bestia muoversi per rincorrerlo. Pensava di essere spacciato. Corse ancora più forte. Nel buio illuminato solo dalla torcia era difficile correre veloce, ma doveva farlo. Oltretutto, Giovanni, doveva stare attento a non inciampare, sbucciarsi banalmente un ginocchio, graffiarsi, perché il suo albinismo andava al di là del proteggere la pelle dal sole per non ustionarsi. Giovanni aveva il sangue che si coagulava molto lentamente e con difficoltà. La bestia gli era quasi vicino. Giovanni ragionò. Pensò ad un modo per liberarsi dell’animale che lo inseguiva. Allora gli venne un’idea. Si diresse verso il sentiero dove dormiva il drago. La corsa era stremante. La bestia lo rincorreva e si avvicinava ogni secondo un po’ di più. Giovanni dovette dare sfogo alle ultime sue forze. Il fiato era ormai corto. Il sudore gli grondava dalla fronte disturbandogli la vista. L’animale l’aveva ormai raggiunto. Giovanni sentiva quasi il suo fetido respiro proprio dietro le spalle. Urlò di paura! Finalmente era arrivato al sentiero dove riposava il drago. Il suo urlo acuto e impaurito sveglio di soprassalto il drago. Il mostro mosse la coda con fragore. Spalancò gli occhi e la bocca. Preparò le ali. Giovanni si gettò davanti a lui a qualche metro di distanza. Nell’erba alta e resa umida dalla rugiada, strinse i denti e pregò. Il drago invece si alzò da terra quanto bastava per non correre il rischio di essere colpito. Poi emise un fragore violento e sputò un veemente fuoco in direzione della bestia che stava inseguendo Giovanni. Nel frattempo il bambino si alzò e si mise a correre verso la montagna, seguendo il sentiero. Non si voltò mai per vedere la scena, tanto aveva paura. L’animale che l’aveva inseguito era un lupo. Era stato ferito dal fuoco emesso dal drago ma attaccò la bestia in una lotta impari. Il drago volò un po’ più su poi scese in picchiata sulla schiena del povero lupo. Il lupo guaì ma non si diede per vinto. Si gettò a terra e strisciò per nascondersi nell’erba alta. Il drago non vedeva molto bene a causa del buio. Si mosse a destra e a manca senza trovare il lupo. Allora si diresse verso sud per trovar un posto per dormire le ultime ore della notte. Trovò, poco più in là una roccia molto grande. La raggiunse e si acquietò accanto, arrotolandosi su sé stesso. Nessuno vide più il drago. Il lupo intanto desistette dal dar la caccia a Giovanni e ritornò nel bosco alla ricerca del resto del branco per raccontare ai suoi simili cosa gli era accaduto quella notte. Giovanni ormai era arrivato quasi alla cima della montagna. Era stanco ma felice. Giunto ad una radura si guardò intorno. Scorse una grotta da cui usciva una piccola luce ma lucente. Si avvicinò guardingo alla grotta. Temeva di incontrare ancora qualche bestia famelica. La luce si faceva sempre più intensa. Appena arrivo di fronte al chiarore vide che all’interno di essa c’era una sagoma ben precisa che tante volte il suo amico Albì gli aveva descritto: una donna bianchissima accanto ad un bisonte altrettanto bianco. Si inginocchiò davanti a loro e chiese aiuto: voleva solo ritrovare il suo amico Albì. La donna bianca allora gli disse: "Non temere, con noi sei al sicuro. Segui l’amico bisonte bianco che ti condurrà in un posto magico."
"E tu?" – chiese il ragazzo.
"Io rimarrò di guardia all’ingresso della grotta perché nessun uomo o donna che non creda nella fantasia e nell’amore possa scoprire il nostro tesoro… Su, va ora!"
Giovanni si voltò verso il bisonte bianco che si era incamminato all’interno della grotta. L’anfratto roccioso era buio e nero come la pece ma a Giovanni non serviva la torcia. Al contrario, la luce bianca sprigionata dal bisonte altrettanto bianco illuminava la via. Camminarono per pochi minuti, in silenzio. Poi Giovanni chiese con un fil di voce: "Dove stiamo andando?"
Il bisonte fece un cenno con la testa: "Di là… fidati! La fiducia negli altri è una grande dote e la fiducia in sé stessi è una dote ancora più grande."
In breve tempo arrivarono ad un punto dove la grotta si stringeva e si abbassava. Giovanni si mise a gattoni e seguì il bisonte bianco. Per la verità, viste le dimensioni, era un cucciolo di bisonte. Il bisonte si fermò davanti ad un laghetto sotterraneo. La sua luce illuminò parte di esso: "Ecco, questo è il ghiacciaio Albì. La sorgente che alimentava Albì e che ghiacciava in superficie a causa del freddo, ora scorre ridente sottoterra fino a valle, dove diventa un bel fiumiciattolo."
"Posso prenderne un pochino? Ho con me una piccola borraccia!" – insistette il bambino.
"Certo, ma bada bene che l’acqua pura e potabile non è eterna e l’uomo ne sta abusando.
"Cosa significa abusando?" – chiese il ragazzo.
"Significa che si usa più acqua di quella necessaria, perciò la si spreca per nulla."
Giovanni non riempì la borraccia, per non sciupare l’acqua. In effetti la sua borraccia era già colma di acqua raccolta dal rubinetto di casa. Quindi non era necessario prendere altra acqua. Giovanni ringraziò il bisonte e accarezzò l’acqua, sussurrando: "Ciao Albì…"
Subito una lieve nube si alzò dal piccolo laghetto sotterraneo: "Ciao Giovanni."
Dopo un attimo di silenzio la nube continuò: "Ogni volta che farai un’azione buona nei confronti della natura, rispettandola, o nei confronti di una persona, aiutandola nei momenti di difficoltà, io sarò felice."
Giovanni sospirò.
"E quando vorrai potrai venire sempre a trovarmi qui" – aggiunse benevola la nube.
Il bisonte iniziava a perdere la sua luce e a rimpicciolirsi sempre di più. Giovanni urlò: "No! Come faccio a ritornare all’ingresso della grotta!"
Ma era troppo tardi. Il bisonte si rimpicciolì ulteriormente sino a divenire delle dimensioni di un sassolino. Giovanni si chinò e lo raccolse. Era umido. Lo illuminò con la pila: il sasso era stato inciso con un disegno bellissimo raffigurante un bisonte bianco che si abbeverava ad una sorgente nata da un ghiacciaio poco sopra. "E la donna bianca?" – si chiese Giovanni mentre ritornava lestamente all’ingresso della grotta.
"Sono qui…" – gli intimò una voce.
Giovanni alzò lo sguardo: "Io ti proteggerò perché il tuo animo è buono. Sei buono quando lo sei verso gli altri e riesci a controllare i pensieri cattivi scacciandoli e non tramutandoli in azioni malefiche. Va e credi che la vita è bella e che tu sei importante come qualsiasi altro bambino sulla Terra. Giovanni, in un batte d’occhio ritornò a casa ed iniziò una nuova vita fatta di speranza e della consapevolezza di essere un bimbo speciale e, a modo suo, fortunato.

Scritto da Cristian Madaschi

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